Il poeta sdraiato

Il poeta sdraiato
Sapete che possiamo avere un momento di relax proprio come sa fare questo poeta chagalliano?

IL CORPO DELLE DONNE


martedì 23 marzo 2010

VIAGGI "DOSTOEVSKIJANI"

Leggere Dostoevskij significa leggere e cercare sorprese sotterranee all'istante o dopo del tempo, perché tale è la sua influenza che prima o poi ritrovi delle sue tracce anche nella cultura occidentale; così gli intrecci si sciolgono e il papiro che prima era schiuso si distende completamente nella sua chiarezza.
Dostoevskij impiegò molte delle sue energie e facoltà nel comprendere la contrapposizione tra la bellezza, il bene ed il male rintracciabile nelle sue opere e che, in un certo senso, le ha create.
Il principe Myskin, -scusate gli accenti in tutto il post-, ne L'idiota ad un certo punto discute di un quadro di Hals Holbein, il "Cristo nella tomba" che mostra il corpo disteso incanutito e sofferente di un Cristo occidentale molto umanizzato con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata. Davanti a questo quadro Myskin perderebbe la fede, ed è questo il quadro che Dostoevskij vide di persona a Dresda quando ebbe la sua prima crisi epilettica:

"Questo quadro!..." gridò il principe, come colpito da un'idea improvvisa, "questo quadro!..." ripeté. "Ma questo quadro può far perdere la fede!"
"Infatti la si può perdere "confermò inaspettatamente e all'improvviso Rogozin. [...]
"[...] Ma dimmi un po', tu che sei stato all'estero, è vero quel che mi diceva un ubriaco che qui da noi, in Russia, ci sono più miscredenti che non negli altri paesi?
"Per noi" mi diceva, "è più facile che per loro non credere in Dio, perché noi ci siamo spinti più lontano di loro..."

Si potrebbe pensare ad un confronto tra le confessioni in oriente ed occidente, ma quello che ci interessa ora è capire perché perde la fede. Come può essere un'opera d'arte se non c'è la bellezza? Questo quadro raccappricciante mostra il Cristo che soffre come un uomo, carattere estraneo alla cultura russa in cui un'opera d'arte è tale se esprime la bellezza. Nelle icone cristologiche ortodosse, Cristo è spesso rappresentato rosso e sempre circondato da colori molto caldi, non esprime mai il dolore e la sua carne non è mai esibita come i piedi, che nella crocifissione non sono inchiodati ma poggiano in un piccolo piedistallo perché non ci deve essere empatia per il cadavere. L'icona non è fatta da mano umana ma da Cristo stesso nel momento in cui impresse il suo volto sudato sul telo bianco secondo la variante orientale del velo della Veronica. Per cui non viene umanizzato.
Devo confessare che io non avevo capito il senso di quel passo "dostoevskijano" perché non avevo elementi fino a quando non mi fu spiegato in uno di quegli spazi culturali che ogni tanto mi concedo, ma percepivo che vi era qualcosa di importante. Dostoevskij, o dobbiamo dire il suo alter ego il principe Myskin, davanti al quadro capisce che c'è anche il male e non riesce a connotarlo. Un male fatto di cadaveri e di corpi sofferenti, psiche sofferenti, impiccati di cui è piena l'arte occidentale che ripropone e reinterpreta di volta in volta, di anno in anno, di artista in artista.
I cadaveri di Marlene Dumas, palesemente holbeiniani, e le sue bambine impiccate sembrano ispirati a Dostoevskij che più tardi scrisse il suo ultimo romanzo con cui sembra chiarisca fra sé la questione dell'esistenza del male, e cioè che non è da escludere, bensì da contemplare insieme alla vita. I demòni narra di un ragazzo viziato che descrive proprio come fa con i personaggi da lui profondamente odiati, un giovane immorale, non amorale, ma incapace di capire la gravità delle proprie azioni che compie con assoluta leggerezza. Conduce una vita molto agiata, con molte amanti e si permette dei rapporti sessuali con una bambina che ad un certo punto giace nel letto gravemente ammalata:

[...] lei era effettivamente molto dimagrita. Il viso le si era rinsecchito e la testa doveva scottarle per la febbre. Gli occhi erano diventati più grandi e mi fissavano immobili con un'espressione di ottusa curiosità, o almeno così mi parve dapprima. Io me ne restavo seduto in un angolo del divano e la guardavo senza muovermi. E in quel momento di nuovo provai dell'odio per lei. Ma ben presto mi accorsi che lei non aveva affatto paura di me e forse era presa al delirio. Ma non era in preda al delirio. Improvvisamente cominciò a scuotere ripetutamente il capo verso di me, come si fa quando si vuole sgridare severamente qualcuno, e a un tratto levò contro di me il suo piccolo pugno, senza muoversi da dove stava, in un gesto di minaccia. In un primo momento quel suo gesto mi parve ridicolo, ma ben presto non riuscii a sopportarlo: mi alzai e mossi verso di lei. Il suo viso esprimeva una tale disperazione quale non è possibile vederne una uguale su un viso di un bambino. Lei continuava ad agitare contro di me il suo piccolo pugno in segno di minaccia e a scuotere il capo come per rimproverarmi. Mi accostai a lei e presi cautamente a parlare, ma vidi che lei ono mi capiva. Poi ad un tratto si nascose di scatto il viso nelle belle mani, come quel giorno, e se ne andò alla finestra, volgendomi le spalle. La lasciai lì, tornai nella mia stanza e mi sedetti anch'io accanto alla finestra. Non riesco assolutamente a capire perché non me ne andai allora, e invece restai come se fossi in attesa di qualcosa. Ben presto udii di nuovo i suoi passi frettolosi: aveva attraversato la porta che metteva in una galleria di legno per cui si andava giù per la scala; corsi subito alla porta della mia stanza, la socchiusi e feci appena in tempo a scorgere Matresa che entrava in un piccolo ripostiglio, una specie di pollaio, situato accanto al gabinetto. Mi balenò in testa una strana idea. Chiusi la porta e tornai alla finestra. Naturalmente non potevo ancora credere all'idea che mi era balenata, "ma comunque"... [Rammento tutto alla perfezione].
[...]
A un tratto tirai fuori dal taschino l'orologio: erano passati venti minuti da quando lei era uscita. Quella mia supposizione cominciava ad assumerne una certa verosimiglianza. Tuttavia decisi di aspettare ancora un quarto d'ora. Mi venne anche in mente che lei poteva essere rientrata senza che io l'avessi udita; ma questo era impossibile: regnava un silenzio di morte, tanto che potevo udire il ronzio di una mosca.
[...]
A questo punto mi alzai, mi calcai in testa il cappello, mi abbottonai il soprabito e girai un'occhiata alla stanza per controllare se tutto era al posto di prima e se non erano rimaste delle tracce che denunciassero che ero stato lì. Avvicinai la sedia alla finestra, proprio come stava prima. Alla fine aprii la porta, la richiusi con la mia chiave e mi accostai alla porta di quel piccolo ripostiglio: era solo accostata, ma non chiusa, e io sapevo che non veniva mai chiusa; ma non potevo aprirla così mi misi a spiare. [...]
Annotando qui questa minuzia voglio di proposito dimostrare fino a che punto fossi lucido e perfettamente padrone delle mie facoltà mentali. A lungo spiai attraverso la fessura , dentro era buio, ma non del tutto. Alla fine intravidi ciò che mi occorreva... volevo accertarmene senza ombra di dubbio. Alla fine risolsi che potevo andarmene e mi avviai giù per la scala. Non incontrai nessuno. Circa tre ore dopo tutti quanti noi senza giacca, prendevamo il tè e giocavamo con un vecchio mazzo di carte nel mio appartamento.


La piccola, sommersa dalla colpa per quello che lui le aveva fatto, si impiccò.

E' Martin! Il Martin viscontiano in "La caduta degli dei". Si capisce subito.
E questa influenza mi ha raggelata di stupore come non mai.
Le parti che ho riportato in rosso sono quelle che Luchino decise per la scena con la piccola ebrea.

Chagatt

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